Borgo Ficana. Parlano di noi.


Con piacere e orgoglio vogliamo condividere un estratto del libro “Il Paesaggio Fragile – L’Italia vista dai margini” di Antonella Tarpino  edito da Einaudi in cui la scrittrice ci porta in viaggio con lei  “tra i paesaggi ai margini del nostro Paese, facendo affiorare territori  nascosti, voci, visioni e suoni di chi quei paesaggi ha disegnato nel tempo”.

Racconta con gentilezza e curiosità il suo viaggio tra le case di terra cruda del medio Adriatico fino a  Villa Ficana e ai suoi “atterrati”.

    Da Treia risalgo alla vicina Macerata: voglio visitare l’antico quartiere, Villa Ficana, edificato quasi interamente in terra cruda. Di recente è stato restaurato ed è, si può dire, il principale cantiere pilota del ripristino di case di terra, tanto più visto che è stato posto dalla Sovrintendenza della Regione Marche – in qualità di patrimonio demoantropologico da tutelare – sotto vincolo ambientale.
Sono case a schiera costruite nell’Ottocento, in pieno incremento demografico (censite nel 1883 dall’Inchiesta Jacini), per i “casanolanti”, affittuari che costituivano manodopera a basso costo, braccianti in genere senza casa. Alle spalle svettano gli ultimi piani, bianco giallognolo già grigiastro, della periferia della città moderna. Tinteggiature e mattoni in cotto sulle pareti lasciano per qualche secondo interdetti ma la trama dei “pani” è quasi subito percepibile. Soprattutto intatto si rivela fin da subito il disegno antico di un abitare condiviso, il reticolo dei vicoli e dei vicinati in cui si snodava la densa socialità di Ficana, quella vera (bassa) così è detta dagli abitanti del quartiere: Ficana bassa  “quillu mucchjittu de casette de muro e de tera che sta più vasse in confronto a quelle jalle” – sono le parole di un “vardascio”, un giovane degli anni Sessanta (testimone in un libro intervista di Franco Gabrielli); era abituato a ripararsi fra le stradine dell’antico quartiere, quando veniva sorpreso da un vigile col suo motorino a far impennare la ruota davanti (“allora te bluscavi drendo l’infinità dei vicoletti e non te putia ‘cchiappà mango se facia le voccatelle”).

E poi continua:

    E’ davvero una struttura unica il complesso in terra cruda di Villa Ficana, colpisce il valore unitario dell’insieme. Al centro naturalmente sono le case di terra nella convinzione (lo afferma Pierluigi Salvati, dei Beni architettonici e paesaggistici Regione Marche) che non sia sufficiente conservare le “emergenze” per preservarne i valori. Bisogna che gli edifici storici siano restituiti alla loro congrua cornice.

Ancora:

    Case di terra e valori: i due termini vennero associati – o dissociati per meglio dire – col farsi strada crescente di un senso di vergogna che a partire dai primi decenni del secolo si diffuse fra gli abitanti delle aree cadute ai margini.

    Vergogna si provava ormai per la propria condizione e per la cultura di origine avvertita in breve come sinonimo di marginalità, un disvalore. Quella stessa che in risposta alla domanda:”Per chi la campana risuona a morto?” fa dire a un abitante del Fermano, lo rammenta Romano Folicaldi: “Nisciù, un cuntadì” (Nessuno, un contadino).
    Nessuno, niente: il nulla è l’entità  in cui, del resto, si sono dissolti nel tempo gran parte degli impasti in terra cruda restituiti alla terra. Eppure anche il nulla, tanto più in architettura, contiene un monito per il nostro futuro. Un elemento virtuoso se confrontato con lo sfacelo invasivo degli edifici contemporanei. Magari si accasciassero in una resa morbida, dissolvendosi progressivamente a terra. Invece, come potranno mai essere metabolizzati il cemento armato e i suoi ferri rugginosi – si chiede Mario Lolli Ghetti, anche lui dei Beni paesaggistici -, la plastica invadente, il vetro, l’alluminio o i nuovi materiali sintetici sempre più avveniristici e sempre  meno naturali? Sempre più distruttivi del nostro paesaggio storico e dei suoi caratteri identitari.

    Tratto da ” Il Paesaggio fragile” (Einaudi)

    di Antonella Tarpino

Fonte: